Non c'è guerra che possa garantire la pace |
Di Beppe del Colle, riprodotto dall'Italo Americano, settembre 2003 |
L'avevano detto in molti: la guerra "preventiva" non garantirà pace, sicurezza e ordine al Medio Oriente, anzi ne aggraverà il caos, la violenza, la spinta dei fondamentalismi al terrorismo.
Secondo il ministro degli Esteri francese, de Villepin, non c'è che una soluzione: affrettare i tempi della restituizione della sovranità agli iracheni, votata democraticamente e garantita dalle Nazioni Unite, dagli altri Paesi della regione e dalla Lega araba. È la continuazione logica della posizione assunta dalla triade Francia-Germania-Russia prima del conflitto in Iraq: la guerra "preventiva" non garantirà pace, sicurezza e ordine al Medio Oriente; anzi ne aggraverà il caos, la violenza, la spinta dei fondamentalismi al terrorismo.
Adesso che tutto questo è confermato, occorre rimediare il più rapidamente possibile.
Secondo Geoge W. Bush, invece, la strada migliore è la continuazione della guerra fino al trionfo finale: l'Onu approvi una risoluzione che impegni molti altri Paesi 'in difesa della civiltà" contro la "visione totalitaria che i terroristi vogliono imporre al mondo".
In Iraq ci sono già oggi 146.000 soldati americani, 11.000 inglesi, 10.500 di varia nazionalità, 2.800 italiani.
La Casa Bianca ne vorrebbe molti altri: come i già promessi 50.000 indiani, i 10.000 turchi e le migliaia di pachistani (per non citare i Governi amici degli Usa) e quelli di tutti i Paesi che si sentano solidali con l'America.
Le Nazioni Unite, che con lo spaventoso attentato alla lore sede a Baghdad e la morte del loro delegato De Mello hanno avuto un'ulteriore legittimazione a coinvolgersi nel conflitto, chiedono a Bush quello che egli molto difficilmente concederà: che si affidi a loro il comando e il controllo delle operazioni militari, poltiche, umanitarie per la pacificazione in Iraq.
Naturalmente sarebbe pericoloso e sciocco farsi troppe illusioni sull'una e sull'altra di queste soluzioni.
Se non era difficile prevedere che cosa sarebbe successo non solo in Iraq, ma in Palestina e forse anche in Afghanistan dopo il blitz contro Saddam Hussein, cioè l'angosciante, terroristica risposta dell'estremismo islamico; lo era un po' meno l'esplosione della protesta, in Occidente, ma soprattutto in Gran Bretagna, contro il castello di volute manipolazioni della verità costruito dai Governi di Washington e di Londra per ottenere il consenso delle loro opinioni pubbliche alla guerra "preventiva" proclamata inevitabile, di fronte alla minaccia delle armi di distruzione di massa attribuite falsamente al dittatore iracheno.
A cose fatte, tuttavia, sarebbe azzardato immaginare che la diplomazia e il controllo di un'organizzazione in sé pacificatrice come l'Onu, con un uso della forza limitato alle necessarie operazioni di polizia antiterroristica e di ristabilimento dell'ordine civile, possano in poco tempo ristabilire un accettabile equilibrio di tanta parte della Terra, mentre il mondo arabo e musulmano è agitato ed eccitato dal fondamentalismo religioso, etnico e nazionalistico, dalla Palestina al Golfo Persico, all'Asia centrale.
Né d'altra parte si può accettare facilmente l'idea, cara ai neoconservatori al potere a Washington, che la forza militare basti a garantire al mondo, nel Ventunesimo secolo, la "pax americana".
Come ricorda il celebre antropologo René Girard in un'intervista a Vita e pensiero (la rivista bimestrale dell'Università Cattolica), "viviamo in un mondo in cui lo sviluppo economico, basato sulla concorrenza frenetica - la forma di conflitto oggi più espansa -, sta per diventare lui stesso una minaccia. Gli uomini sono sempre capaci di perdersi e combattersi per un qualsiasi motivo".
Le religioni, oggi, c'entrano fino a un certo punto. Anzi, forse meno di qualsiasi altra cosa: a cominciare dal petrolio.
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